Degentilonis di Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2017.
Raccontano gli storici che Agostino Depretis, leader della sinistra storica, padre del trasformismo, maestro del rimpasto, artista dell’equilibrismo e re del galleggiamento, appena tirava aria di crisi di governo si presentava in Parlamento incurvito, pallido ed emaciato, intabarrato in abiti trasandati e lisi, la barba lunga e bianca, la sciarpa attorno al collo ad altezza naso, l’andatura claudicante per la gotta. Poi si alzava lentamente per prendere la parola e arringava l’assemblea con un fil di voce, roca e tossicchiante, con discorsi circonvoluti e interrotti da continui scatarrii e intercalari: “Sono mezzo malato, e pure di malumore, abbiate un po’ di pazienza”, “Sto qui ancora un po’ prima di tornare alla mia antica e prediletta professione di agricoltore”. I Consigli dei ministri li riuniva preferibilmente nel salotto della sua casa romana in via Nazionale, dove – racconta lo storico Ferdinando Martini – “non c’era che un piccolo tavolinetto tondo, senza carta né calamaio”. Così non si stilava il verbale e lui poteva prendere pezzi dei programmi della destra e della sinistra e tirare a campare con i voti dell’una e dell’altra.
Dinanzi a quel cadavere ambulante, anche i più strenui oppositori si muovevano a compassione e lasciavano passare la fiducia. Tanto, pensavano, ha già un piede nella fossa: come negargli un piccolo supplemento, in attesa dell’imminente funerale? Che però non arrivava mai. Fu così che Depretis governò l’Italia quasi ininterrottamente dal 1876 al 1887 (quando morì per davvero), con un’interruzione di pochi mesi e un’altra di un biennio scarso. Non sappiamo se Paolo Gentiloni sia un cultore di storia patria e un fan di Depretis, ma i suoi esordi a Palazzo Chigi sembrano ispirati a quel modello. È salito al governo all’indomani della disfatta renziana come un premier provvisorio, periclitante, con l’arietta di chi sembra domandare: “Ma dite proprio a me?”, “Ma siete sicuri?”, “Ma non starete sbagliando persona?”. Sulla sua durata nessuno scommetteva un cent, anche perché, prima ancora dell’insediamento, i renziani schiumanti di rabbia già gli dettavano perentorie date di scadenza, manco fosse un fermento lattico: febbraio, marzo, aprile, giugno. Non un giorno di più. E lui non faceva una piega, anzi li assecondava col suo fare emolliente, da anestesista consumato: “Massì, lo so anch’io che i governi durano finché hanno la fiducia del Parlamento”. Infatti presentò un programma talmente vago (i giovani, il Mezzogiorno, la ripresa, il lavoro...) che il suo governo poteva durare un anno e mezzo o un giorno e mezzo.
Poi, provvidenziale, arrivò il coccolone col ricovero al Gemelli. Quando ne uscì, Gentiloni era il gemello redivivo di Depretis: ingobbito nel suo loden come un Andreotti minore, il collo a scomparsa come le tartarughe marine rinserrate nella testuggine o come Mattarella, il volto pallido, l’occhio da triglia, il saluto tremolante, il sorriso malinconico, l’andatura malaticcia. Da allora Degentilonis non cammina: pattina. Non parla: sibila. Chi oserebbe mai contrariare un tapino siffatto? Se Vincenzo Cardarelli, che in piena estate indossava tre cappotti uno sull’altro e in casa teneva accese una ventina di stufe, passò alla storia come “il più grande poeta italiano morente”, Degentilonis si candida a diventare il più grande premier italiano morente. Un presidente del Consiglio per insufficienza di prove, oltreché di alternative. Sta lì ancora un pochino, poi toglierà il disturbo. E intanto passano i giorni, le settimane, i mesi e non si vede né chi né come potrebbe toglierlo di mezzo. Pare brutto, fra l’altro, creargli grattacapi, visto il poco che gli basta per finire in ospedale: e se poi, Dio non voglia, ha una ricaduta? Chi se ne assume la responsabilità? Meglio non disturbarlo, come lui non disturba noi: il suo segreto è non fare assolutamente nulla, interpretando al meglio le aspettative del popolo italiano, che non ne ha mai voluto sapere di essere governato (Giolitti e Mussolini dicevano che governare gl’italiani non è difficile: è inutile). Intanto, accomodatosi a palazzo, ha iniziato a prenderci gusto: però, quasi quasi...
Col trascorrere dei giorni, tutto l’ambiente circostante si è gentilonizzato: Mattarella era già gentiloniano prima ancora dell’arrivo di Degentilonis; Piero Grasso si è gentilonizzato ieri, con una magistrale intervista al Corriere firmata dal Degentilonis del giornalismo, il felpato e cardinalizio Massimo Franco: il presidente del Senato ha spiegato che non si vota fino al 2018 per “i problemi del dopoterremoto”. Di qui a un anno, tutti i problemi saranno ottimi per assicurare la massima durata possibile al quarto governo consecutivo nato all’insaputa degli elettori. Dice Grasso in Degentilonis che nei prossimi 12 mesi bisognerà “recuperare il tempo perduto” negli ultimi quattro anni, non solo per fare l’ennesima legge elettorale, ma addirittura per “condividere con le opposizioni” una nuova riforma costituzionale: come fanno gli studenti ciucci che, ripetutamente bocciati, cambiano liceo e scelgono un diplomificio per fare “quattro anni in uno”, non essendo mai riusciti a farne neppure uno in uno. Dinanzi a cotanto programma, sorge persino il dubbio che, quando parlano di “scadenza naturale della legislatura”, i Degentilonis non alludano al febbraio del 2018, ma del 2028. Tanto a che serve votare, se chi governerà dopo è già deciso? Meglio evitare: si risparmiano un sacco di soldi e pure la fatica di ribaltare per l’ennesima volta le urne. E loro sono tanto stanchi. Massì, lasciamolo lì, Degentilonis: non disturba, non sporca, dove lo metti sta. E poi è mezzo malato, e pure di malumore, ancora un po’ di pazienza... E saremo tutti morti. Tranne lui.
Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2017.
Raccontano gli storici che Agostino Depretis, leader della sinistra storica, padre del trasformismo, maestro del rimpasto, artista dell’equilibrismo e re del galleggiamento, appena tirava aria di crisi di governo si presentava in Parlamento incurvito, pallido ed emaciato, intabarrato in abiti trasandati e lisi, la barba lunga e bianca, la sciarpa attorno al collo ad altezza naso, l’andatura claudicante per la gotta. Poi si alzava lentamente per prendere la parola e arringava l’assemblea con un fil di voce, roca e tossicchiante, con discorsi circonvoluti e interrotti da continui scatarrii e intercalari: “Sono mezzo malato, e pure di malumore, abbiate un po’ di pazienza”, “Sto qui ancora un po’ prima di tornare alla mia antica e prediletta professione di agricoltore”. I Consigli dei ministri li riuniva preferibilmente nel salotto della sua casa romana in via Nazionale, dove – racconta lo storico Ferdinando Martini – “non c’era che un piccolo tavolinetto tondo, senza carta né calamaio”. Così non si stilava il verbale e lui poteva prendere pezzi dei programmi della destra e della sinistra e tirare a campare con i voti dell’una e dell’altra.
Dinanzi a quel cadavere ambulante, anche i più strenui oppositori si muovevano a compassione e lasciavano passare la fiducia. Tanto, pensavano, ha già un piede nella fossa: come negargli un piccolo supplemento, in attesa dell’imminente funerale? Che però non arrivava mai. Fu così che Depretis governò l’Italia quasi ininterrottamente dal 1876 al 1887 (quando morì per davvero), con un’interruzione di pochi mesi e un’altra di un biennio scarso. Non sappiamo se Paolo Gentiloni sia un cultore di storia patria e un fan di Depretis, ma i suoi esordi a Palazzo Chigi sembrano ispirati a quel modello. È salito al governo all’indomani della disfatta renziana come un premier provvisorio, periclitante, con l’arietta di chi sembra domandare: “Ma dite proprio a me?”, “Ma siete sicuri?”, “Ma non starete sbagliando persona?”. Sulla sua durata nessuno scommetteva un cent, anche perché, prima ancora dell’insediamento, i renziani schiumanti di rabbia già gli dettavano perentorie date di scadenza, manco fosse un fermento lattico: febbraio, marzo, aprile, giugno. Non un giorno di più. E lui non faceva una piega, anzi li assecondava col suo fare emolliente, da anestesista consumato: “Massì, lo so anch’io che i governi durano finché hanno la fiducia del Parlamento”. Infatti presentò un programma talmente vago (i giovani, il Mezzogiorno, la ripresa, il lavoro...) che il suo governo poteva durare un anno e mezzo o un giorno e mezzo.
Poi, provvidenziale, arrivò il coccolone col ricovero al Gemelli. Quando ne uscì, Gentiloni era il gemello redivivo di Depretis: ingobbito nel suo loden come un Andreotti minore, il collo a scomparsa come le tartarughe marine rinserrate nella testuggine o come Mattarella, il volto pallido, l’occhio da triglia, il saluto tremolante, il sorriso malinconico, l’andatura malaticcia. Da allora Degentilonis non cammina: pattina. Non parla: sibila. Chi oserebbe mai contrariare un tapino siffatto? Se Vincenzo Cardarelli, che in piena estate indossava tre cappotti uno sull’altro e in casa teneva accese una ventina di stufe, passò alla storia come “il più grande poeta italiano morente”, Degentilonis si candida a diventare il più grande premier italiano morente. Un presidente del Consiglio per insufficienza di prove, oltreché di alternative. Sta lì ancora un pochino, poi toglierà il disturbo. E intanto passano i giorni, le settimane, i mesi e non si vede né chi né come potrebbe toglierlo di mezzo. Pare brutto, fra l’altro, creargli grattacapi, visto il poco che gli basta per finire in ospedale: e se poi, Dio non voglia, ha una ricaduta? Chi se ne assume la responsabilità? Meglio non disturbarlo, come lui non disturba noi: il suo segreto è non fare assolutamente nulla, interpretando al meglio le aspettative del popolo italiano, che non ne ha mai voluto sapere di essere governato (Giolitti e Mussolini dicevano che governare gl’italiani non è difficile: è inutile). Intanto, accomodatosi a palazzo, ha iniziato a prenderci gusto: però, quasi quasi...
Col trascorrere dei giorni, tutto l’ambiente circostante si è gentilonizzato: Mattarella era già gentiloniano prima ancora dell’arrivo di Degentilonis; Piero Grasso si è gentilonizzato ieri, con una magistrale intervista al Corriere firmata dal Degentilonis del giornalismo, il felpato e cardinalizio Massimo Franco: il presidente del Senato ha spiegato che non si vota fino al 2018 per “i problemi del dopoterremoto”. Di qui a un anno, tutti i problemi saranno ottimi per assicurare la massima durata possibile al quarto governo consecutivo nato all’insaputa degli elettori. Dice Grasso in Degentilonis che nei prossimi 12 mesi bisognerà “recuperare il tempo perduto” negli ultimi quattro anni, non solo per fare l’ennesima legge elettorale, ma addirittura per “condividere con le opposizioni” una nuova riforma costituzionale: come fanno gli studenti ciucci che, ripetutamente bocciati, cambiano liceo e scelgono un diplomificio per fare “quattro anni in uno”, non essendo mai riusciti a farne neppure uno in uno. Dinanzi a cotanto programma, sorge persino il dubbio che, quando parlano di “scadenza naturale della legislatura”, i Degentilonis non alludano al febbraio del 2018, ma del 2028. Tanto a che serve votare, se chi governerà dopo è già deciso? Meglio evitare: si risparmiano un sacco di soldi e pure la fatica di ribaltare per l’ennesima volta le urne. E loro sono tanto stanchi. Massì, lasciamolo lì, Degentilonis: non disturba, non sporca, dove lo metti sta. E poi è mezzo malato, e pure di malumore, ancora un po’ di pazienza... E saremo tutti morti. Tranne lui.
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